Vivere in una condizione di solitudine profonda può cambiare il modo di percepire il mondo esterno. E anche rivelarsi pericolosa a lungo andare…
Ora che la paura del Covid-19 sembra un lontano ricordo occorre, però, fare i conti con le situazioni che ha provocato. Molti, hanno perso i contatti che avevano e tutti si sono dovuti adattare ad avere rapporti a distanza per un periodo di diversi mesi durante il lockdown.
Stare da soli, da quanto emerge, non solo può rivelarsi difficile, ma anche arrivare a cambiare il cervello delle persone. Si parla, però, del caso in cui si tratti di una solitudine protratta e involontaria, e non decisa dall’individuo di sua spontanea volontà.
La ragione, è che l’assenza di contatti sociali per un essere umano non è una situazione considerata nella norma. Di conseguenza non dovrebbe stupire come alcune ricerche abbiano già mostrato che uno stato di solitudine prolungato sia correlato ad un declino cognitivo. Nell’età avanzata questo si accentua negli anziani soli, mentre in quelli che hanno contatti frequenti la memoria rimane più solida.
Uno studio recente pubblicato sulla rivista Psychological Science, invece, si è concentrato su una fascia di età molto giovane, tra i 18 e i 21 anni. Tutti i 66 partecipanti, hanno prima di tutto compilato un questionario per comprendere se avessero contatti sociali più o meno frequenti. Dopodiché, si sono sottoposti a un’analisi conosciuta come risonanza magnetica funzionale mentre assistevano alla proiezione di diversi video. I contenuti illustrati nei filmati mostravano soprattutto occasioni mondane e scene sentimentali.
Una differenza evidente
I ragazzi che avevano partecipato all’esperimento sono stati raggruppati in due categorie sulla base del questionario. Da una parte i giovani che sperimentano la solitudine e dall’altra quelli con rapporti sociali frequenti. Dopodiché, raccolti i dati dalla risonanza, si è passati a confrontare i sistemi di elaborazione mentale. Dall’analisi, appare lampante la differenza fra quelli del primo e quelli del secondo gruppo.
In parole povere, la visione del mondo di chi non sta molto a contatto con gli altri si distingue notevolmente da chi invece è attivo socialmente. Inoltre, nonostante si trattasse di persone diverse per sesso e interessi, chi era “più solo” aveva un’attività cerebrale simile a chi era come lui. Secondo questo studio,, dunque, la rete sociale di una persona la può influenzare più di quanto possa rendersi conto. Ma soprattutto, che la solitudine stessa porti ad accentuare il proprio allontanamento.